Dalla competizione alla collaborazione, passando per le reti.

Dalla competizione alla collaborazione, passando per le reti.

Sarà che competitiva non mi ci sento ma poi mi ci scopro a volte, che qualcuno scambia la disponibilità a contribuire con l’essere troppo buoni, sarà che la noto ad altissimi livelli in così tante rappresentazioni e narrazioni del reale, che in più occasioni il sottrarmi alle lotte di potere ha giocato a mio sfavore, non facendomi percepire dei ‘pericoli’, che una riflessione sulla competitività la vorrei fare.

Siamo abituati alla competitività, fin da piccoli, sia con gli altri che con noi stessi. Non è un atteggiamento che riguarda solo l’individuo. Riguarda le imprese, mercati interi, stati, specie viventi. Usiamo termini come competitor, conquista di un mercato, un mercato in più rispetto a, predominio nello sfruttamento di qualche risorsa. La competitività per conquistare un’identità o mantenere una posizione. Si compete da sempre come specie, per sopravvivere in un ecosistema complesso in cui sembra che sia possibile stare solo imponendo il nostro dominio su tutti gli altri elementi.

Che la competitività sia stata e sia ancora un motore al migliorare, all’eccellere non è discutibile. Che non sia l’unico lo è altrettanto. Performance e partecipazione al comporre la realtà sono state possibili anche grazie alla curiosità, alla creatività e all’intuizione, possibile in menti libere e rilassate, alla collaborazione, di cui abbiamo già esempi eccellenti nel mondo marino ad esempio come le barriere coralline, o nell’intelligenza artificiale.

Abbiamo a che fare con la competitività fin da piccoli, e da allora si apprende un linguaggio e quindi un pensiero. Pensiamo alle frasi di genitori soddisfatti perché il bambino o la bambina ha già abbandonato il pannolino, o sa già dormire nel proprio letto tutta la notte. Un avverbio che parla di competitività, con chiarezza. Si compete nei luoghi di lavoro, dove le persone sono invitate a distinguersi rispetto ai colleghi, emergere, dove la narrazione del successo non è quasi mai slegata da una scalata verticale o dalla dimensione dell’individuo trainante, e i più finiscono ancora per crederci.

Una volta mi è stato chiesto se al lavoro volessi ‘crescere’. La domanda riguardava un crescere nel senso di evolvere all’interno di una gerarchia verticale, avere persone, un mio team, sotto di me.  Era implicito anche il pensiero che non desiderare questo tipo di crescita, significasse qualcosa di poco qualificante, non essere particolarmente ambiziosi forse, non possedere quella benzina della competizione che è troppo spesso vista come l’unica possibile. Si cresce anche non crescendo verticalmente e dico di più, se ci si sgancia dalla competizione si accresce, forse meglio. La benzina poi è un carburante fossile, che dobbiamo il prima possibile lasciarci alle spalle.

Passare dal crescere all’accrescere, perfezionando e approfondendo una serie di competenze e conoscenze specifiche è utile e necessario. Accrescere l’impasto di un insieme di informazioni, ragionarle e rimescolarle per produrre qualcosa di nuovo, di più adatto e funzionale al momento, in cui ciascuno deve fare una parte e stare bene in quello che fa, è qualcosa di necessario in ottica di sistema. Percepire il successo del sistema di cui la propria preziosa unicità fa parte o scalare con energia e forza una vetta solitaria, comporta competenze, qualità ed effetti dell’agire molto diversi. E comporta una base culturale ben lontana dagli stereotipi degli uomini e donne in carriera dipanati per anni.

Gli assesment che ci facciamo o a cui siamo sottoposti sono individuali, ma va ancora bene così? È soprattutto il sistema oggi ad avere bisogno di evoluzione e di innovazioni, all’interno delle quali ciascuno di noi può trovare un preciso collocamento in base alle proprie capacità e qualità. Ma le proprie qualità bisogna intuirle, sentirle e poi comunicarle affinché possano essere parte di qualcosa. E per farlo bisogna fermarsi ogni tanto.

Un sistema che mette al primo posto dell’osservazione e attenzione l’individuo e la sua singola evoluzione è ancora valido? Possiamo pensare a uno scenario politico in cui ha ancora senso uno stato e la sua volontà di predominio su un altro? Un partito che vince e uno che perde? O siamo piuttosto una specie che deve in realtà cominciare seriamente a preoccuparsi di come adattarsi, togliersi dall’ottica del predominio e mantenere la biodiversità, ad esempio?

Per transitare all’economia circolare c’è sempre più bisogno della parola sistema. Le campagne comunicative ad esempio, che usano parole come leader di o servizi a 360 gradi sono stantie non tanto perché non comunicano senso, o ne comunicano uno appunto oggetto di troppa competizione, quanto piuttosto perché non si collocano nel mondo attuale, in cui la visione egocentrica, sia essa di individuo, di impresa, di stato o di specie, non è più utile. La comunicazione aziendale che parla di sostenibilità e non attua progetti di collaborazione è lontana dal concetto stesso a cui cerca di accostarsi.

La parola individuo ha bisogno di ricollocarsi, senza sparire, all’interno di uno scenario in trasformazione. Partire da una nuova narrazione di realtà e fare spazio nella nostra mappa del mondo alla collaborazione è un buon inizio.

Collaborare significa stare in una dimensione di fiducia, comunicazione, visione condivisa. È una dimensione non immediatamente accessibile, che va costruita sia come individui che come gruppi, perché ancora lontana dal comune sentire. Per arrivarci serve allenare la nostra elasticità ad accogliere il cambiamento, la capacità di raccogliere input dagli altri, di condividere informazioni (anche quando non ci sembra a prima vista necessario), di ascoltare, la capacità di dare feedback costruttivi, la nostra voglia e abilità di riconoscere e ricompensare gli altri. La consapevolezza della nostra individualità e delle nostre specifiche caratteristiche e valori è ancora importante, per due motivi: conoscere e quindi portare il proprio contributo, non vivere quello altrui come una minaccia identitaria.

Perché dobbiamo collaborare? Lo abbiamo sempre fatto, da quando la nostra specie è presente sul pianeta per sopravvivere e prosperare. La storia oggi non è diversa e la collaborazione serve per giungere a soluzioni innovative, trasformazioni che hanno a che fare con il nostro adattamento ancora una volta sollecitato e rispondere alle grandi sfide a cui non possiamo sottrarci, neppure volendo.

Accostare nuove parole al nostro linguaggio e alle nostre strutture, qualsiasi esse siano, comporta indubbiamente uno sforzo ma il non farlo comporterebbe, in un futuro nemmeno troppo lontano, enormi difficoltà. Collaborazione, accrescimento, sistema di individui in relazione tra loro. Dotarsi di queste parole, cercarle nei racconti della realtà conosciuta, svilupparle dove non ne esiste nemmeno il sentore, cambierà il risultato delle nostre azioni, le persone di cui sceglieremo di circondarci e la visione che abbiamo del loro agire, a ogni livello di realtà.

Per aiutarci nella trasformazione potremmo prendere in prestito la parola coopetizione, che rappresenta una strategia di business già esistente, capace di tenere insieme sia le dinamiche di competizione che di cooperazione. Si realizza tra imprese concorrenti che scelgono di collaborare solo su certe attività del proprio business, attraverso un esplicito accordo preliminare sulle attività che dovranno essere svolte in modo congiunto o autonomo. La coopetizione è stata già applicata con successo in vari settori industriali, nell’informatica, in ambito finanziario o turistico.

 

Per aiutarci nella trasformazione, potremmo anche immaginarci dentro nuove forme geometriche. Abbandonare le gerarchie verticali che da tempo annaspano nella polvere, ma anche quelle orizzontali, dove gli elementi in relazione guardano verso una destinazione comune senza prestare troppa attenzione agli altri presenti. Spostarci dalla visione a cerchio, chiusa alla contaminazione essendo tutta rivolta verso un unico focus centrale, per passare alla forma della rete. Una rete, una maglia in cui siamo tutti punti collegati e colleganti, un insieme di sinapsi funzionali a fare transitare energia e valore, capaci di comprendere l’ambiente e i suoi mutamenti, e di fornire quindi risposte adattive calibrate sulle esigenze che si presentano. Un insieme di cellule nervose fittamente interconnesse capaci di nutrire il singolo e un sistema molto più grande. Una forma molto simile a quelle che le piante hanno da sempre e che l’Intelligenza artificiale ha già organizzato per sé, mentre noi stiamo a guardare.