Scuola di tennis per chi comunica la sostenibilità

Scuola di tennis per chi comunica la sostenibilità

A 42 anni ho scelto di imparare a giocare a tennis e ho compreso alcune cose sul come possiamo comunicare meglio la sostenibilità. Per quanto tutti oggi ne vogliano parlare, la sostenibilità è un tema complesso. In comune con il tennis ha che non è conosciuto se non da chi ci gioca da anni. Ma non solo. La sostenibilità è per tutti noi qualcosa di nuovo, una postura da imparare, un atteggiamento da usare nel vivere quotidiano. 

Non è facile da grandi imparare un nuovo linguaggio, fare sì che il cervello assorba schemi che gli sono sconosciuti e poi che il corpo li esprima in movimenti mai fatti prima. Nel fare cose nuove, soprattutto da grandi, ci si può sentire impacciati, ci vuole più tempo, la dimensione della sicurezza viene meno, serve una guida.

La scelta della guida, come nel caso del maestro di tennis, è fondamentale. Ci sono maestri che in 60 minuti di lezione ti tengono gli occhi incollati addosso, dedicando tutta l’attenzione a te. Ci sono maestri che hanno come obiettivo quello di farti imparare, purtroppo sono pochi, ma sono i più bravi. Spremono e trainano la tua concentrazione per farti avanzare di passi che sembrano piccoli e non lo sono affatto. Stanno lì ad avere un rapporto con il tuo cervello ed è come se sapessero che prima di tutto siamo esseri che si emozionano e solo dopo razionalizzano le scelte del nostro inconscio.

Non è una caso che chi decide di imparare un nuovo sport decida anche di lasciare perdere l’avventura già dalle prime lezioni. Cosa succede? Non viene sollecitata l’emozione e questo crea abbandono. Le emozioni poi non sono tutte uguali: la paura non è come la curiosità o l’entusiasmo, l’ansia non è come il senso di sicurezza del potercela fare e così via. Per dire che anche dove l’emozione viene sollecitata, è importante che sia quella giusta, perché altrimenti semplicemente abbandoneremo.

Si abbandona il gioco anche quando non si ottengono risultati. Il maestro mi raccontava che molti, dopo una partita andata male, decidono di non essere portati e che il 90% dei casi di allievi che gli sono capitati decidono di interrompere l’avventura (per poi ricredersi). Sembra che sia cruciale allenare il cervello a ricordare anche i buoni risultati, costruire ricordi positivi, insegnare a vedere cosa funziona oltre a cosa non funziona ancora, che anche se le cose non vanno sempre come ci aspettiamo, possiamo progredire parecchio, possiamo divertirci.

Un maestro di tennis che ama quello che fa è raro. La differenza si vede perché il maestro è il primo che si diverte, ci crede, non guarda l’orologio, non si lascia interrompere da telefonate improvvise, soprattutto crede senza dubbio che l’allievo/a possa imparare e giocare.

Ricordo il mio professore di italiano del liceo. Nonostante la mia spiccata curiosità per le lettere non ricordo di avere mai provato emozione e voglia di ascoltare ciò che stava spiegando. Lo faceva come leggesse un vecchio elenco telefonico, gli occhi spenti, una litania scandita dal passeggio che dal muro portava alla finestra e viceversa, nessuna curiosità di capire come la grande prosa o la sublime poesia avrebbero interagito con i nostri cuori e le nostre sinapsi. Non gli interessava che noi imparassimo, non credeva nemmeno forse che noi fossimo interessati.

Ricordo invece la mia totale indisponibilità verso la matematica ma il grande entusiasmo che percepivo ogni volta che il Prof passava due ore a descriverci un teorema. Alla fine gli esercizi riuscivo a farli ma soprattutto ne avevo voglia, si trattava di partecipare. L’ho capito dopo, che fare gli esercizi a casa serviva per partecipare a qualcosa di cui volevo fare parte e anche che non volevo tradire una persona che provava autentico entusiasmo. Questa sua passione era trascinante.

Che dire poi dei metodi di insegnamento. Ci sono quelli che ti tengono sul campo e propinano le loro conoscenze dalla A alla Z sulla tecnica, usano nomi roboanti, tu ti senti ancora più lontana dalla capacità e poi ti chiedono di provare. Oppure ci sono quelli che ti chiedono di guardarli per un momento, con assoluta concentrazione, e ti fanno vedere come il gesto si fà. E solo allora ti chiedono di iniziare a fare lo stesso gesto, correggendoti via via nel mentre che ci provi.

In effetti, se ci pensiamo, noi non abbiamo imparato a parlare perché ci hanno messo davanti a libri di grammatica o perché ci hanno spiegato a priori che cosa è l’italiano, abbiamo imparato perché in casa qualcuno parlava una lingua, che poco alla volta è diventata nostra. Abbiamo appreso semplicemente per imitazione. Ma non solo, abbiamo appreso una lingua che ci è stata trasmessa mentre si faceva altro, mentre si viveva la quotidianità. Quando si caricava una lavatrice, si preparava una cena, si disponevano le macchinine lungo la pista da corsa del salotto, nessuno dei nostri familiari si fermava per dirci che cosa era l’italiano, nessuno fermava il gioco per dire che stavamo parlando in italiano e di quanto sarebbe stato importante impararlo o per parlarci dei danni del non farlo. L’italiano era incorporato in ogni cosa della giornata, e basta, e noi imitando chi già lo parlava bene, lo usiamo oggi correttamente.

La scelta degli esercizi è guidata dagli obiettivi. Cambiando l’esercizio cambia l’obiettivo ma anche il confine che abbiamo nella testa. In un esercizio sul rovescio, ci troveremo a finire un cesto di palline, pensando a fare bene il movimento del braccio, alla stretta della mano destra e sinistra sulla racchetta, alla nostra rotazione e alla postura dei piedi. Ma se l’esercizio è palleggiare per colpire un barattolo di latta nel campo opposto, tutte le cose a cui pensavamo nell’esercizio iniziale non ci sono più, perché sono incorporate nel movimento che sceglieremo di fare per colpire il barattolo. Attenzione, lo sono sia che siamo già capaci di fare il rovescio, sia che non lo siamo e non farà differenza, l’esercizio lo faremo lo stesso. Capire lo scopo dell’esercizio è molto importante per un fare di qualità, ma soprattutto quando occorre un fare strategico. È un po’ come il parlare a voce alta per pensare o il farlo per comunicare qualcosa a qualcuno. L’efficacia cambia totalmente e così anche la capacità di influenza che riusciremo a esercitare.

Ci sono moltissimi esercizi che possiamo fare, ma quelli che sarà importante fare saranno solo quelli che ci serviranno per giocare e divertirci. Imparare a giocare a tennis da adulti non ha a che fare con il voler diventare degli esperti illustri di questo sport ma con il giocare. Certo, usare qualche nome in più al circolo, far credere che sappiamo cosa sia uno smash o chi è stato il campione tal dei tali, ci farà apparire come più esperti ma lo scopo non è fare gli esperti, nemmeno guadagnare valuta sociale. Lo scopo è agire. È per questo che ricevere nozioni di nicchia sulle tecniche più sofisticate non ci servirà probabilmente a nulla per giocare fin da subito, così come ascoltare qualcuno che dice cose incomprensibili per non navigati del tennis.

Lo scopo, non bisogna proprio mai dimenticarselo: si tratta di agire, stimolare l’azione di qualcun altro oltre a noi. Ci serve agire e chi desidera portare conoscenza di qualcosa a qualcun altro, su temi molto rilevanti, ha la responsabilità di stimolare l’azione, non confondere le idee, saper pensare al di fuori della propria carriera personale, senza disperdere energia (attenzione) che qualcuno ha deciso finalmente di prestare, sicuramente credere e trasmettere che un modo nuovo di abitare un campo sia possibile