Il colloquio inverso
Invertire porta a orientare la marcia nel senso opposto a quello seguito, a sperimentare pensieri diversi da quelli abituali e costruzioni nuove per effetto del cambiamento di posto di due elementi, a volte al rovesciamento di una situazione.
Invertire la rotta è un atteggiamento che pervade molti degli attuali orientamenti sul futuro: la decrescita al posto della crescita, per contrastare da un lato il processo di inquinamento del nostro pianeta e supportare dall’altro una vita più sostenibile per tutti noi che lo abitiamo.
Cosa succede quando invertiamo?
La storia ci offre esempi dell’utilità di invertire la rotta in svariati ambiti, ad esempio nel campo delle strategie belliche e di esplorazioni avventurose. Lo stesso pensiero scientifico si nutre della capacità di vedere le cose in un modo diverso, cambiando a volte elementi tra sé, come nel caso della visione del sistema solare di Tolomeo prima e di Copernico poi, in cui il Sole e la Terra assumono due posizioni invertite.
Ragionare a parti inverse aiuta a sviluppare l’empatia, la comprensione reciproca, allenta i conflitti e in alcuni casi li risolve, e promuove una migliore stabilità e armonia nelle relazioni e quindi una maggiore possibilità di successo per la vita in comunità.
Alcuni film che ci hanno accompagnati nei Natali tra parenti, ci raccontano dell’utilità di scambiarsi le parti, sociali e professionali, per scoprire che una visione comune è possibile e che porta più successo e più umanità per tutti i personaggi di una scena.
Insomma scambiarsi le parti è un esercizio sorprendente, soprattutto se fatto in situazioni intrise di tradizionalismo e gerarchia. Come ad esempio il colloquio di lavoro.
Il colloquio di lavoro
In senso ampio la definizione di colloquio poggia sul concetto di incontro. Un momento che due o più soggetti cercano per scambiarsi idee e sensazioni su una questione. In ambito professionale un colloquio è invece di solito solo un esame, nel quale esiste una persona interessata a un posto di lavoro e una persona che deve esprimere un giudizio e fare una valutazione.
Il colloquio di lavoro a cui siamo abituati prevede due ruoli e nella maggior parte dei casi un flusso univoco di informazioni, che parte dalla persona che si propone per un impiego e arriva alla persona che rappresenta l’impresa.
Chi manifesta il proprio interesse per una posizione, si candida e invia un curriculum che permette all’impresa di entrare subito in contatto con molte informazioni rilevanti e di avviare ricerche autonome ulteriori per arricchire quanto già ricevuto.
Se ritenuta di interesse, la persona viene convocata, da sola, per incontrare una o più persone che faranno domande di vario tipo. Il fine è valutare l’idoneità o meno dell’interessato all’impiego disponibile.
Le domande poste dagli esaminatori seguono di solito una logica comune.
Si parte con un giro di riscaldamento in cui il candidato offre una presentazione libera di sé, precisando spesso, su richiesta, almeno 3 pregi e 3 difetti.
Seguono domande sui punti di forza e di debolezza auto percepiti, sui temi relativi alla propria esperienza e competenza in uno o più ambiti professionali. Si indagano le motivazioni, gli interessi, le capacità o meno di lavorare in gruppo.
La conduzione del colloquio è nelle mani del valutatore. Il luogo è di solito un ufficio o una sala riunioni deserta e la durata del colloquio è scandita dalla numerosità delle domande poste e solo in maniera marginale dal tempo che il candidato impiega per rispondere. A volte al candidato viene chiesto se desidera porre domande a sua volta e molto spesso l’invito è declinato, ma quando la risposta è sì, finisce che passa qualche minuto in più.
Immaginando un colloquio a ruoli invertiti invece cosa succederebbe?
Innanzitutto cambierebbero i partecipanti al colloquio. Probabilmente l’impresa non chiederebbe a un esperto in risorse umane di esaminare un determinato candidato ma darebbe l’incarico di partecipare all’incontro a una persona capace di descrivere a fondo l’azienda che rappresenta. La sua storia, i suoi obiettivi, le sue capacità organizzative, i successi conseguiti, presentando i difetti forse in maniera contenuta.
Molto probabilmente a cambiare sarebbe anche il luogo dell’incontro: il colloquio non avverrebbe di certo in una stanza chiusa ma con ogni probabilità in un percorso organizzato all’interno dei vari uffici e locali, al fine di mostrare nei fatti quanto raccontato tramite le parole e offrire al candidato un’esperienza il più possibile immersiva e piacevole nel clima aziendale.
Il flusso di informazioni sarebbe biunivoco, non solo in direzione dell’impresa ma anche del candidato, uno scambio effettivo, una conoscenza reciproca. Tanto che non esisterebbe più solo un curriculum vitae del candidato ma anche dell’impresa, il quale potrebbe essere strutturato secondo le medesime caratteristiche dei modelli a uso individuale, con alcune aggiunte importanti.
Ad esempio qualche informazione di dettaglio sul management che guida l’azienda, sull’idea che ha scatenato la nascita dell’impresa, sui valori che nell’operato si cerca di perseguire, sulle ricadute che l’attività dell’organizzazione genera in termini di utilità per la comunità oltre che per il profitto.
La persona interessata all’impiego avrebbe modo di capire non solo la sua idoneità o meno ma anche di riflettere sul proprio grado di interesse e comprendere la voglia di investire il proprio operato e tempo nell’impresa, in uno o più progetti che si troverà di lì a poco a costruire, nel caso di assunzione.
Sentire risuonare in sé
Condividere, ma soprattutto sentire risuonare in sé il perché di un’azione è certamente un motore potente per innescare impegno, partecipazione, tenacia e volontà di agire anche in condizioni di stanchezza, che fisiologicamente possono subentrare nelle professioni dopo qualche tempo.
Di certo, condividere una visione scatena qualcosa di più incisivo del semplice scambio monetario a seguito di una prestazione. E ciò aiuterebbe non solo il professionista che potrebbe appassionarsi autenticamente a un progetto, ma anche l’azienda, che godrebbe di migliori garanzie di performance e di più ampie possibilità di superare gli ostacoli nella quotidianità professionale.
Fare qualcosa, guadagnare soldi
Il vocabolario inglese ci aiuta a cogliere questa sfumatura grazie alla presenza di 2 termini come job e work, dove il primo ha a che fare con l’attività che si fa per guadagnare denaro e il secondo vuole esprimere ciò che la persona è in grado di fare e l’attività a cui decide di dedicare il proprio tempo lavorativo.
Chi si impegna in un work produce effetti più brillanti di chi si accontenta di un job. Cercare di fare della propria passione il proprio lavoro comporta una serie di vantaggi, espressi dalle esperienze che grandi imprenditori nella storia ci hanno fatto apprezzare.
Il linguaggio in aiuto
Per avvicinarci all’idea di colloquio inverso e dare vita ai possibili benefici descritti può essere utile ricorrere a una nuova terminologia, mettendo da parte ad esempio il termine ‘mercato del lavoro’ che relega tutta la faccenda a uno scambio economico in cui un prezzo viene fissato sulla base di una domanda e di un’offerta.
Oppure usando più spesso il termine impresa al posto di azienda, per trasmettere che ciò che tutti i giorni facciamo nella nostra attività lavorativa, comporta il costruire qualcosa, insieme a qualcuno. Se così pensato, il nostro agire professionale, può appropriarsi di un senso costruttivo importante, sia esso riferito a sogni personali o a sogni di altri a cui decidiamo di dedicare il nostro tempo e le nostre capacità.
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